Tassata la rinuncia al compenso

Il socio «abbandona» il credito e si apre la strada all’applicazione dell’imposta
La tesi del cosiddetto “incasso giuridico” (la presunzione che le somme che si devono incassare e alle quali si rinuncia sono comunque soggette a ritenuta da parte della società e a tassazione per il percettore che ha rinunciato), già sostenuta dall’agenzia delle Entrate, trova ulteriore conferma nella recente giurisprudenza della Cassazione. Si consolida, quindi, l’orientamento secondo cui la rinuncia del socio al credito correlato a redditi imponibili per cassa è una modalità di patrimonializzazione della società con incremento del costo fiscale della partecipazione detenuta dal socio, da cui deriva la necessità di applicare le imposte sulla rinuncia.
Pertanto, ad esempio, se un socio rinuncia al compenso per la carica di amministratore deve essere assoggettato a tassazione il credito oggetto di rinuncia, con obbligo della società di effettuare le relative ritenute.
Il primo intervento dell’Amministrazione finanziaria sul tema risale al 1994, con la circolare numero 73, che ha affermato che la rinuncia a crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa (quali, ad esempio, i compensi spettanti agli amministratori e gli interessi relativi ai finanziamenti dei soci) presuppone l’avvenuto incasso giuridico del credito e quindi l’obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare, anche mediante applicazione delle ritenuta di imposta. Tale orientamento ha poi trovato conferma nella risoluzione dell’agenzia delle Entrate n. 152/2002.
La Corte di cassazione, nella sentenza 1915/2008, ha affermato, con riguardo al caso di un contribuente che aveva ricoperto la carica di amministratore di una Srl e di due condomini senza percepire apparentemente alcun compenso, che va considerato legittimo l’accertamento dell’Ufficio che ha assoggettato a tassazione i compensi presumendone la percezione, in quanto si tratterebbe di un comportamento manifestamente antieconomico.
Ragionamento diverso, ma conclusioni analoghe, ha manifestato la più recente sentenza 1335 co/2016 concernente il caso di una Srl alla quale, a seguito di rinuncia operata da due soci amministratori all’erogazione della propria indennità di fine mandato, l’Agenzia ha contestato l’omessa effettuazione e versamento delle ritenute.
I giudici di legittimità hanno affermato che la rinuncia del credito da parte di un socio sia espressione di una volontà di patrimonializzare la società e che, pertanto, non possa essere equiparata alla remissione di un debito da parte di un soggetto estraneo alla compagne sociale. In altre parole, la rinuncia presuppone il conseguimento del credito il cui importo, anche se non incassato, è comunque utilizzato, mediante atto di rinuncia, con ineludibile soggezione alla relativa tassazione. 
La Suprema corte ha anche richiamato la precedente sentenza 26842/2014 riguardante la rinuncia ad un credito derivante da compensi per royalties spettanti al socio di maggioranza, ad avviso della quale, in tema di determinazione del reddito d’impresa, l’articolo 88 comma 4 del Tuir (che, nel testo allora vigente, escludeva in ogni caso che dovessero considerarsi sopravvenienze attive le rinunce ai crediti operate dai soci nei confronti della società), non consente di alterare il regime fiscale (in capo ai soci) del credito che costituisce oggetto di rinuncia. 
La norma in esame deve, infatti, essere letta in correlazione con gli articoli 94 comma 6 e 101 comma 7 del Tuir, per effetto dei quali l’ammontare relativo al credito oggetto di rinuncia si aggiunge al costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione detenuta nella società debitrice e non è ammesso in deduzione in capo al socio.
Dal punto di vista operativo, occorre quindi prestare particolare attenzione, ad esempio, ai casi in cui le società provvedono al pagamento di una parte del compenso già deliberato e, in corso d’anno, si rendono conto che l’onere non è più sostenibile. In tal caso, la verbalizzazione della rinuncia da parte dell’amministratore-socio all’incasso del compenso fa “scattare” la presunzione che il medesimo compenso sia stato figurativamente incassato e poi restituito alla società sotto forma di finanziamento. 
È allora preferibile che l’assemblea decida di revocare il compenso prima della sua maturazione, sulla scorta del fatto che non sussistono più le condizioni per l’erogazione della remunerazione.
LA VIA D’USCITA Se l’azienda non è più in grado di onorare in tutto o in parte i suoi impegni occorre revocare gli emolumenti per evitare la tassazione.
Fonte: Il sole 24 ore autore Luca Miele

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